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Il magico potere del decluttering (sostenibile)

La mia fissazione degli ultimi tempi ha finalmente un nome, anzi, un inglesismo: decluttering. Ovviamente in chiave sostenibile. Convinta fosse una mania imposta dalle ristrettezze dei miei spazi domestici e dai percentili di crescita dei figli, scopro invece essere un’ossessione di tanti. Al punto che Ikea dedica un’intera sezione del sito e dei negozi fisici all’esigenza di organizzare spazi e oggetti. Cosa c’entra l’organizzazione con il tema in questione? Il decluttering è lo step precedente, la condizione necessaria perché l’ordine si faccia largo: è l’azione del buttare per creare spazio. Letteralmente significa “liberarsi degli oggetti superflui”, in pratica ha a che fare con una rivoluzione mentale.

Quando si parla di eliminare il superfluo non si può fare a meno di citare il metodo konmari di Marie Kondo, regina del riordino e baluardo contro il caos che regna nelle nostre case. In Giappone l’arte del minimalismo e dell’essenziale è una vera e propria cultura: il riordino è una materia che si insegna a scuola nei corsi di economia domestica. Nei suoi due libri, “Il Magico Potere del Riordino” e “99 lezioni di felicità”, prima ancora di affrontare il tema del riordino, Marie Kondo affronta il tema del decluttering, anche se non lo chiama così. “Prima di andare avanti, finite di buttare tutto”, intitola sinistramente il secondo capitolo del primo libro. Perché scartare, buttare, archiviare, cestinare è la chiave del mettere a posto le cose, soprattutto i vestiti. Secondo la Kondo le azioni fondamentali da eseguire per il riordino sono due: buttare via ciò che non serve e trovare una collocazione a quello che rimane.

Decluttering e sostenibilità

Certo, buttare non è di certo la prima azione sostenibile che viene in mente quando si parla di sostenibilità. Se pensiamo alla regola delle 5 R dei rifiuti (riduzione, riuso, riciclo, raccolta, recupero) è lampante che ci sia una contraddizione tra i due temi. Quando decisi di applicare il metodo Konmari su me stessa mi venne lo scoramento per la quantità di abiti da scartare. Che fare di fronte a una montagna di abiti inutilizzabili? Questa è la domanda fondamentale da farsi prima di applicare il decluttering. Le opzioni, come sempre, sono molteplici.

Decluterring e riuso, il mercato del second hand

I negozi di abiti usati sono la prima alternativa per tutti quegli abiti che non trovano più posto nel nostro armadio. Magari perché siamo ingrassate o dimagrite, perché sono cambiati i gusti, perché quel vestito proprio non lo amiamo più (o forse non lo abbiamo mai amato veramente, ma quello è un altro tema, di cui parleremo prossimamente). Qualunque sia il motivo, non giudichiamoci, troviamo delle alternative. O delle seconde case accoglienti per quei vestiti.

Secondo uno studio di GlobalData riportato dalla CNBC, nel 2018 il fatturato indotto dal mercato degli abiti usati negli Stati Uniti ha quasi pareggiato quello delle catene di fast fashion: 24 milioni contro i 35 di marchi come Zara e H&M. Una cifra simbolicamente storica, che rischia di aumentare a dismisura nei prossimi anni grazie alla diffusione di negozi di second hand e all’ondata verde portata da Greta. I vantaggi del riuso sono molteplici: non si inquina, si permette di dare una seconda vita ai capi e di uscire dalla dinamica dell’acquisto impulsivo e compulsivo. Aggiungo che entrare in un negozio di abiti usati e scegliere un capo qualsiasi implica prendersi il tempo necessario per scegliere con cura, provare prima di comprare e risparmiare soldi. Contro: se un capo nasce scadente non diventerà ricco alla fine, dice Enrico Tesi nell’inchiesta “Panni sporchi” di Presa Diretta. Il che significa che se abbiamo scartato magliette comprate al supermercato e pagate 5 euro, è molto probabile che non saranno benvenute nemmeno nei negozi dell’usato. Del resto, sfido chiunque a comprare t-shirt scadenti, fossero anche usate. La qualità si paga, è un dato di fatto.

Un altro “contro” del riuso è che molti addetti ai lavori del tessile e del retail lo considerano già un mercato saturo. Troppi vestiti e accessori prodotti dalle aziende equivalgono a troppi vestiti e accessori sugli scaffali dei negozi di second hand. Ma se fosse già saturato il mercato, a logica, le aziende di moda non dovrebbero più produrre capi da qui al 2030. E invece le aziende continuano a sfornare nuove collezioni, anche 52 in un solo anno; continuano a nascere nuovi marchi (molti eco-sostenibili, va detto) che continuano a saturare un mercato che, di fatto, va oltre la reale capacità e necessità di acquisto di ogni ognuno di noi. Credo che prima di passare un capo dall’armadio alla discarica si possa e si debba fare un passaggio intermedio: quello dei negozi dell’usato.

Decluttering e riciclo

Dopo il decluttering posso sempre riciclare i miei abiti grazie agli appositi cassonetti o alle iniziative di alcuni marchi. Vero in parte. Secondo uno studio della Ellen Mac Arthur Foundation solo l’1% dei capi viene realmente riciclato. Questo è un problema serio, che la maggior parte dei consumatori ignora. Nel momento stesso in cui un capo viene prodotto con un mix di filati differenti o di colori diversi sappiamo già che quel capo non potrà essere rigenerato. Il che è un peccato capitale, perché filati naturali come lana e cotone potrebbero essere riciclati con estrema facilità ed efficacia. Per quanto iniziative di brand come OVS e Intimissimi siano lodevoli, rischiano di essere uno specchietto per le allodole: nessuno saprà mai con certezza quanti dei capi che portiamo per essere riciclati verranno effettivamente rigenerati. E se non possono essere riciclati? Finiscono in discarica o nell’inceneritore. Va detto che una minima parte degli abiti dismessi, se non può essere riciclato o riusato, può contribuire a creare energia: è uno dei punti del 2020 Circular Fashion System Commitment, un’iniziativa della Global Fashion Agenda per accelerare la transizione verso una moda circolare a cui molte aziende hanno aderito.

Decluttering fa rima con “meno e meglio”

Se c’è una cosa che ho imparato negli anni è che la soluzione migliore è spesso la più drastica. Comprare meno e meglio, in questo caso, è la vera chiave di svolta. Il decluttering sostenibile serve principalmente a prendere consapevolezza di quello che c’è nei nostri armadi, di quanti maglioni neri abbiamo collezionato negli anni, di quanti jeans possediamo, di quali capi abbiamo realmente bisogno al prossimo giro di saldi. Più che a fare riordino, il decluttering serve proprio a capire di cosa NON abbiamo bisogno. Forse non abbiamo bisogno dell’ennesima t-shirt o forse ci manca giusto una borsa passpartout che si abbini alla maggior parte del nostro guardaroba e che ci eviti il dramma del cambio borsa a ogni cambio d’abito. Ecco perché all’inizio di questo lungo post (se siete arrivate fin qua vi meritate un applauso) parlavo di rivoluzione mentale. Cambiare abitudini, comprare capi di qualità, scegliere con cura gli abbinamenti: sono tutti passaggi che ci avvicinano sempre di più ad uno stile di vita sostenibile.

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